Domenico "Mimmo" Macrì da Saint Vincent (AO) con un nuovo racconto sul famoso Pietro Barca (Petrin per gli amici)
Con le ciabatte ai piedi, finte “crocs” quelle di gomma coll’imbottitura dentro per tenere i piedi al caldo perché ormai si era a fine ottobre, la tuta di pile, l’immancabile sigaretta tra le labbra e sul tavolino la birra, che non poteva certo mancare, il Pietro Barca (Petrin per gli amici) sfogliava il giornale della provincia in cerca di qualche notizia che avrebbe potuto interessarlo. Che so’ magari un annuncio che evidenziava la vendita di questo o quest’altro appartamento che generalmente venivano lasciati al potenziale nuovo acquirente con tutta la mobilia che comprendeva tra l’altro suppellettili, quadri, vasi, pentolame e posateria, orologi a muro, tappeti, in quanto generalmente queste abitazioni venivano messe in vendita perché seconde case. Proprietari che magari si erano stancati di quel luogo di villeggiatura o eredi di tali che non sapevano cosa farsene.

Scovò tre annunci. Tre alloggi in cui avrebbe potuto fare una ricognizione e successiva valutazione del contenuto e, se questo avrebbe meritato, caricare la refurtiva sul carrello appendice della bicicletta, in quanto non aveva la patente, atto allo scopo di contenere quanta più merce che avrebbe potuto sottrarre in una notte di ”lavoro”. Perché, non dimentichiamolo, il Barca di “professione” faceva il ladro (anche se va detto, un po’ sfigato). Nello specifico svuotava appartamenti.
Una era troppo lontana per lui e soprattutto per il suo mezzo di locomozione. Quindici chilometri da percorrere, sì, all’andata col carrello vuoto, ma al ritorno e visto che lui abitava in una cascina in zona collinare, ci sarebbe stato da forzare troppo sui pedali. E a sessantacinque anni, con una pancia su cui ad ogni pedalata andava a sbattere con le ginocchia, il fiato corto dalle troppe sigarette, non era cosa.
La seconda abitazione la scartò in quanto in pieno centro balneare (della riviera romagnola) e quindi sotto gli occhi di tutti nonché della guardia notturna che durante il suo giro magari lo avrebbe notato.
La terza faceva al caso suo. Un villino piuttosto isolato (conosceva il posto) e lontano da altre costruzioni. E, oltretutto, abbastanza vicino.
- Domani vado a fare un salto- si disse. Al mattino seguente e di buonora cavalcò la sua bici, a cui aveva momentaneamente sganciato il carretto, e si diresse verso la meta.
Fermandosi a poca distanza dalla costruzione e fingendo di riparare la bicicletta per non dare troppo nell’occhio, si era già fatto un’idea. Porte blindate nisba, inferriate men che meno, ante alle finestre che con uno sputo si sarebbero spalancate. –Sei mia-- pensò.
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Tornando a casa valutava i pro e contro e i pro ebbero il sopravvento. Quella stessa sera il misfatto si sarebbe compiuto.
Tant’è che alle dieci e dopo una parca cena per non appesantire troppo il fisico già di suo un po’ fuori forma, vestito di nero come Diabolik, montò sulla bici e via.
Tutto era come aveva notato al mattino. Il portoncino d’ingresso, pur essendo facile allo scasso., era però proprio di fronte alla strada e quindi, a scanso di essere notato, gli suggerì che armamentare in quella zona era un po’ rischioso. Optò allora per le vecchie ante che proteggevano le portefinestre dei balconi. Con un balzo (se vogliamo chiamarlo così visto che ci impiegò almeno dieci minuti a scavalcare una ringhiera alta non più di ottanta centimetri in quanto pancia e fiato reclamavano un trattamento migliore e i calzoni della tuta nera si erano impigliati in un porta fiori di metallo strappandoli in più punti e giù madonne pensando a sua moglie che lo avrebbe insultato ricondandogli che era una tuta nuova di pacca), fu comunque sul balcone, sudato come un toro da monta dopo una prestazione. Vabbè. Aprì il borsone che ogni buon ladro si porta appresso e che contiene l’armamentario del perfetto scassinatore, ci cavò l’attrezzo più confacente, e si mise all’opera. Pochi minuti bastarono per far cedere la serratura e per incidere il vetro della finestra e asportatone un pezzo. Infilò la mano (tagliandosi in più punti) girò la maniglia, aprì ed entrò.
Non male. Non male davvero. Alla luce della torcia quello che pensava ci fosse c’era davvero. Di tutto un po’ insomma. Dai tappeti alle suppellettili. Dagli orologi a muro ai quadri. Persino bottiglie di liquore quasi piene che non si sa mai. E una bella borsa che sarebbe sicuramente piaciuta a sua moglie.

Si mise al lavoro accatastando tutto quello che poteva di fronte alla finestra scassinata. Lavoro piuttosto lungo perché ce n’era davvero tanta di roba “utile”.
Alla fine spostò il tutto sul balcone da cui era entrato anche perchè non era visibile dalla strada e si concesse una sigaretta avendo cura di infilarsi poi il mozzicone spento in tasca perché se lo avesse trovato il maresciallo Podda sarebbe certamente risalito a lui e ciao. Guardò l’ora: le tre. Ora bisognava calare la refurtiva in terra e caricarla sul carretto appendice…… che però agganciato alla bicicletta non c’era.
No. No. No. Aveva scordato di compiere quella semplice operazione. Aveva studiato tutti i dettagli, preso la borsa da “lavoro”, aspettato l’ora giusta ma non aveva fornito la bicicletta della sua appendice.
Che fare? Alle tre (e mezza, ormai) non poteva certo tornare a casa, prendere il carretto (costruito con le sue proprie mani) attaccarlo alla bici, rimontare in sella, tornare in loco criminoso, caricare e quindi ripercorrere il tragitto fino a casa. E non poteva certo caricarsi il tutto sulle spalle. Cosa assolutamente impossibile anche solo da concepire.
Gli venne da piangere. Un po’ per la sfiga dovuta alla dimenticanza e un po’ per le litanie che sua moglie…..ma lasciamo stare. Si maledisse e maledisse la sua smemoratezza. Maledisse le birre che credeva fossero la causa dell’annientamento dei suoi neuroni (ma non giurò a se stesso che avrebbe smesso di bere).
Si incazzò, imprecò più verso se stesso che contro la malasorte. Poi si rassegnò.
Mogio come un vecchio cane costretto in un canile che sa che nessuno lo adotterà mai, assicuratosi stavolta di aver ripreso tutti i suoi arnesi che quel maresciallo accidenti a lui,e rimontò in sella non dopo aver gettato uno sguardo a tutto quel ben di dio che doveva abbandonare. Quanta bella roba che non aspettava altro di essere portata via. Pazienza. Se uno è scemo è scemo, pensò. E lo scemo era lui per sua stessa ammissione.
Sul tragitto di ritorno incrociò l’auto dei Carabinieri che stava facendo il classico giro di sorveglianza con a bordo proprio il maresciallo Podda che, riconosciutolo, lo fermò, gli chiese dove andava o da dove tornava e cosa ci facesse in giro a quell’ora.
<< Sono stato a far visita a un morto>> mentì Petrin. Anche se il maresciallo non aveva creduto per niente a quella fandonia non aveva però elemento alcuno per fermarlo e quindi, salutando militarmente, gli disse << Va bene signor Barca, vada pure>>. Chissà che faccia avrebbe fatto, pensò il Petrin, quando qualcuno, vedendo tutte quelle masserizie sotto un balcone lo avrebbe chiamato (immagini prese dal web)
Ogni riferimento a fatti, persone o cose è da ritenersi puramente casuale
Domenico Mimmo Macrì
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