Di Domenico Macrì da Saint Vincent (AO)
Si sentì invadere dalla paura che in un attimo gli fece sentire freddo.Quella paura che credeva di non avere, lui alto un metro e novanta, forte come un toro e che aveva anche tirato di boxe e che la paura manco sapeva cosa fosse.Tanto freddo. Poi un ondata di calore partì dalla punta dei piedi, attraversò velocissima le gambe , la pancia, il torace e gli seccò la bocca al punto che la lingua sembrava diventata di cartone. Sarà per la corsa, pensò. Gocce di sudore cominciarono a scendere dalla fronte infilandosi negli occhi fino a farglieli bruciare. Ma non poteve asciugarseli, non poteva muoversi. Aveva corso come un dannato. Era scappato perchè erano troppi, anche per uno come lui alto un metro e novanta, forte come un toro e che aveva pure tirato di boxe e volendo avrebbe potuto vivere di prepotenza. Ma non era nel suo carattere. Allora era scappato e adesso non poteva assolutamente spostarsi da lì.

Quasi non voleva nemmeno respirare tanto il fiato era grosso e pensava che il suono dell'alito, uscendo, avrebbe tradito il suo nascondiglio. Sentiva avvicinarsi i colpi secchi delle suole degli stivali che battevano a terra, il rumore di quei tonfi moltiplicato per chissà quante gambe che correvano infilate come il resto del corpo in quelle divise nere, nere quella notte di fine agosto senza luna, con lo stemma del teschio sulla visiera dei berretti, i manganelli pronti a colpire chi non la pensasse come loro e la voglia di picchiare a qualunque costo. Li sentiva avvicinarsi sempre più e pregò che passassero oltre, che non si accorgessero di lui schiacciato al buio nella rientranza di un portone. Li vide sfilare di corsa, sei, sette o dieci quanti fossero, li vide passare oltre e pensò che non lo avevano visto. L'adrenalina che fino a quel momento lo aveva tenuto vigile lentamente scemò di colpo lasciandolo in uno sstato di stanchezza e spossatezza mista a gioia per avercela fatta. Ma durò un attimo. Fu solo un pensiero. Prima vide la faccia maligna e ghignante di chi gli stava di fronte, anche lui vestito di nero, poi si ritrovò in terra con le mani sulla pancia come se il contatto di queste potesse lenire il male che stava sentendo dopo la manganellata arrivata con una violenza incontrollata e cattiva. Ce n'era ancora uno. Uno che aveva perso tempo. Un maledetto ritardatario che si era fermato a pisciare contro un albero che incocciò in lui proprio mentre, sentendosi salvo, stava uscendo dal suo nascondiglio. Uno che gridò "è qui! correte!".

Fece solo in tempo a sentire i passi tornare indietro di corsa. Erano in tanti e tutti con la camicia nera. Troppi anche per uno come lui alto un metro e novanta, forte come un toro e che aveva pure tirato di boxe e che la paura manco sapeva cosa fosse. Il labbro superiore o inferiore, non lo sapeva neanche lui quale, che si spaccava sotto il colpo di un bastone gli riempì la bocca del sapore dolciastro e caldo del sangue. Il dolore di una o più costole che si incrinavano gli fece sputare quel sangue misto a saliva e aria. Cercò mettendo la mani sopra la testa di attutire, ma senza riuscirci, le botte che gli stavano dando. Quando, finite le manganellate, presero a colpire il suo corpo rannicchiato a terra con i calci, pensò, quasi con sollievo che forse si era giunti all'epilogo. Perchè finisce sempre così un pestaggio: con i calci dati alla cieca che colpiscono dove colpiscono senza un ordine preciso.Poi li senzì allontanare, sazi della loro spedizione punitiva, cantando a squarciagola un motivo che aveva sempre odiato, come odiava quei maledetti con le loro camicie nere. Prima di svenire si diede del coglione per aver pubblicamente criticato quel regime che non ti faceva pensare con la tua testa. Ma ci credeva davvero e pensava che comunque uno di un metro e novanta, forte come un toro, che aveva pure tirato di boxe e volendo avrebbe potuto vivere di prepotenza, non lo avrebbe toccato nessuno.
Nell'estate del millenovecentosessanta Ermes Zulian, un omone alto un metro e novanta, forte come un toro e che da giovane aveva pure tirato di boxe era al terzo piano di un edificio in costruzione. Faceva il muratore ed era pure bravo. Era lì seduto su una pila di mattoni che si stava torciando una sigaretta in attesa dell'elettricista che sarebbe arrivato di lì a momenti per segnare le tracce dei cavi. Vide prima spuntare dalla rampa ancora senza gradini la testa poi le spalle, il busto. Istintivamente quando lo ebbe a due metri si portò le mani alla pancia che improvvisamente gli fece male. Come d'improvviso cominciò a sudare ma non per il caldo. E poi sentì freddo. Tanto freddo.
Davanti si ritrovò un uomo dalla faccia normale. O così sarebbe apparsa a chiunque altro. Ma non a Ermes Zulian che in quella faccia vide cattiveria. Una faccia maligna e ghignante. Le strofe di una canzone odiosa gli rimbombarono nel cervello e gli parve addirittura di sentire qualcuno che correva gridando.
Avrebbe potuto mollare la presa e avrebbe visto il corpo dell'elettricista cadere giù dal terzo piano. Vederlo volare nel vuoto per qualche secondo e sentire addirittura il rumore di ossa che si frantumano. Lo teneva per il bavero della giacca, penzoloni da quello che sarebbe diventato un balcone, a mezz'aria come avesse tra le mani un sacco e non faceva nessuno sforzo perchè Ermes Zulian era alto un metro e novante, forte come un toro e da giovane aveva pure tirato di boxe. Vedeva il terrore in quel volto, le gambe impazzite che si muovevano come se stesse pedalando, i suoi occhi terrorizzati che avevano capito il perchè. Che avevano riconosciuto.
Ma Ermes Zulian non era un assassino. Volendo avrebbe potuto vivere di prepotenza ma non lo aveva mai fatto.
Lo lanciò letteralmente di nuovo dentro sulla soletta sporca di cemento dove l'altro si rannicchiò tremante contro una colonna, le mani sul viso come a volersi proteggere da una scarica di cazzotti che però non arrivò. No. Ermes Zulian non era un violento e nemmeno un assassino. Era solo uno che aveva le sue idee e voleva poterle esprimere.
Gli scostò le mani dalla faccia e gli disse semplicemente e quasi per favore, come a chiedergli una cortesia "vattene....vattene per sempre". Non lo vide mai più. (immagini prese dal web).
Mimmo Macrì
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