Domenico, per gli amici Mimmo, ci racconta un'altra delle sue storie passate, alcune simpatiche, altre, come in questo caso, con una vena di tristezza. Ma sempre belle.
Era venuta. Era venuta a quell'appuntamento forse più per curiosità che altro. E io lo volevo, l'avevo cercata, trovata (ed era stato difficile perchè i cellulari ancora non esistevano). E io mi sentivo forte del mio fascino, della mia intelligenza, del mio modo di fare. Sarebbe nuovamente tornata mia. Avevo programmato tutto. Ma non avevo fatto i conti con la razionalità: la sua. E li lo stupido cade. Perchè non doveva finire così. Forse mentendo come avevo saputo fare per tanto tempo, le cose, quel pomeriggio, avrebbero potuto andare in maniera diversa. Essendo più superficiali, meno incisivi, più vaghi, meno onesti, le cose sarebbero andate in maniera diversa. Forse.

Non aprendo il cuore come avevo fatto, sgomentandola, spiazzandola, quasi impaurendola avrei anche potuto strapparle un altro incontro. Forse. Ma non so più mentire. E poi mentire avrebbe significato prendere in giro una persona che non lo meritava. E che se ne sarebbe accorta. Rimane il rammarico, rimangono i ricordi, rimane un pomeriggio comunque bello con una persona bella. Penso che ti ho detto tutto quello che volevo dirti. Penso che non ci hai creduto. Peccato, ma di più non potevo fare. E adesso sono qui che giro a vuoto per casa. Accendo il televisore per poi spegnerlo subito dopo. Non posso accendere il computer perchè ancora nessuno ne possiede uno (ci vorranno ancora molti anni). Ho girato per casa cercando qualcosa di indefinibile, non so nemmeno io cosa. Mi sono guardato intorno quasi che quel mondo noto, conosciuto, quotidiano non mi appartenga. Mi sono seduto sul divano e poi sulla poltrona e poi di nuovo sul divano. Scomodi. Ho aggiustato un libro che sporgeva dalla mensola. Mi sono chiesto se avevo fame, se cucinare qualcosa mi avrebbe aiutato a pensare un po' meno, per occupare il tempo in altri pensieri che non mi avrebbero portato a poco prima. Ho girato a vuoto per un tempo che non saprei definire. Ho sgranocchiato dei grissini davanti alla televisione che ho riacceso senza notare su quale canale fossi sintonizzato con i piedi sopra il tavolino. Sono rimasto così, imbambolato per ore, fino a quando l'orologio mi dice che è tardi. Che è ora di andare a letto magari con un libro da leggere, ammesso che possa concentrarmi sulle pagine. Mi sono infilato sotto le coperte, aspettando inutilmente che le palpebre si appesantissero, che i muscoli si sciogliessero, che la tensione che ancora mi pervadeva scemasse sperando che il sonno avesse avuto il sopravvento. Ma mi sono girato e rigirato nel letto cento volte cercando la posizione più comoda, quella che mi avrebbe permesso di appisolarmi almeno un po'. Ma non c'è stato verso. Il sonno quella notte apparteneva a tutti meno che a me. I pensieri non appartenevano a tutti ma solo a me. A tutto avevo pensato, meno che a una cosa oltretutto logica e ovvia. Si era sposata. Adesso apparteneva a un altro. Adesso apparteneva a suo figlio. Tutto questo succedeva trent'anni fa. Non l'ho più rivista. Non l'ho più cercata. Forse l'ho addirittura dimenticata. Forse.(immagine presa dal web)
Mimmo Macrì
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