dal libro "Le mie vite"di Romolo Benedetti
…….Ad ottobre il centro trapianti mi chiamò nuovamente una sera con urgenza, ma si ripetè la stessa cosa di giugno, ero di nuovo riserva e dopo una notte passata sulle spine me ne ritornai a casa molto deluso. Ormai psicologicamente ero andato, tutti i giorni mi ritrovavo improvvisamente a piangere fino a singhiozzare, salivo più volte al giorno sulla bilancia e guardavo perennemente il televideo per vedere se c’erano stati degli incidenti mortali nei pressi di Roma, non mi perdevo un telegiornale. Cominciavo a perdere le forze stando tutto il giorno a letto, quelle rare volte che scendevo in salone poi facevo una enorme fatica a risalire le scale e finii così col farmi portare da mangiare in camera a letto da Martina e Stefania, ero in pratica agli arresti domiciliari. Una sera di novembre, precisamente il dieci vennero a cena da noi due amici, sembrava una serata normale, si mangiava e si parlava normalmente come sempre, nessuno immaginava cosa stesse per accadere………
……mi ritrovai l’indomani mattina in un letto del Pronto Soccorso dell’Ospedale G.B. Grassi di Ostia legato mani e piedi. Ero molto confuso, cercavo di divincolarmi nel letto ma più mi agitavo e più le corde che mi tenevano legato si stringevano, e vi assicuro che per uno che soffre di claustrofobia non era il massimo della gioia. Stavo male, chiedevo aiuto, c’era un via vai di infermieri che non si interessavano a me minimamente, la testa mi girava e non capivo il perché stessi lì per di più legato come un salame.

Non avevo più la cognizione del tempo, non sapevo se era mattina, pomeriggio o notte o che giorno della settimana fosse. Cosa era successo? In poche parole il mio fegato era arrivato “alla frutta” e quindi avevo avuto un picco molto elevato di ammonio nel sangue la cui conseguenza era il coma epatico. Stefania aveva chiamato il 118 e con l’ambulanza ero stato condotto all’ospedale, e siccome avevo dato segni di inaudita violenza, io che non farei del male ad una mosca, si era reso necessario legarmi non prima di aver aggredito il medico del 118 stesso. Fortunatamente le mie condizioni migliorarono man mano che passavano le ore.........
……. Il giorno dopo vedendo che ero migliorato i medici avrebbero voluto dimettermi, Stefania mi disse alquanto incazzata: << Non firmare nessun foglio di dimissioni altrimenti ti spezzo le mani, sto cercando di mettermi in contatto con il tuo epatologo del S. Camillo per farlo parlare con questa specie di medici e fargli presente la tua situazione.>> Riuscì a rintracciarlo nel tardo pomeriggio ( era di domenica ma gli ha rotto le palle fino a che non gli ha risposto al cellulare ) spiegandogli tutto l’accaduto. Questi le disse che a quel punto la situazione si stava aggravando e si mise in contatto con il centro trapianti per avvertirli delle mie condizioni. Dall’ospedale di Ostia venni trasferito al S. Camillo nelle prime ore del quindici novembre presso il reparto di epatologia “Busi” dove ero di casa da qualche mese a quella parte e un paio d’ore più tardi mi dissero che c’era un fegato disponibile e perciò mi avrebbero trapiantato quella notte stessa. Mi diedero tutto l’occorrente per la preparazione all’intervento e con l’aiuto di Stefania cominciai la mia avventura.

Vennero a prendermi di lì a poco per trasferirmi nel reparto di cardiochirurgia dove si sarebbe effettuato il trapianto. Ricordo che una volta entrato in sala operatoria dissi ai medici che si preparavano all’intervento: << Mi raccomando, non mi trapiantate un fegato di un tifoso romanista altrimenti avrò sicuramente il rigetto.>> Risata generale. Questo fu l’ultimo ricordo che ebbi, da quel momento in poi la mia memoria non ha avuto fortunatamente ricordi fino alla metà di febbraio quando cominciai a riconoscere vagamente le persone che venivano a trovarmi e a realizzare dove stavo e perché…..
…. L’intervento iniziò la notte del quindici novembre per terminare circa undici ore dopo. Posso ben immaginare che ambiente possa esserci stato davanti la porta della sala operatoria, Stefania che faceva avanti e indietro per il corridoio accendendo una sigaretta con il mozzicone di quella precedente per tutta la durata dell’intervento, gli amici che cercavano di distrarla parlando di tutt’altre cose, fino alla tarda mattinata del giorno seguente, quando dalla sala operatoria uscì il chirurgo, Stefania gli si fece incontro e si sentì dire: <L'intervento è terminato ma il fegato trapiantato non ne vuol sapere di partire, non sappiamo cosa fare.
> Lei rimase di stucco impallidendo non poco e con un filo di voce chiese:<< E quindi?>> < Se il fegato non parte nelle prossime ore metteremo suo marito in lista d'attesa nazionale per un secondo trapianto> Rispose il chirurgo. Stefania cominciò a sudare freddo. Non era possibile che dopo mesi e mesi di attesa, pensava, io avessi avuto la fortuna di trovare un fegato compatibile con il mio organismo ma che una volta trapiantato non funzionasse. Perché? Cosa c’era che non andava? Quanto tempo si sarebbe dovuto aspettare per un nuovo fegato? E soprattutto quanto avrei potuto resistere senza la funzione di un organo così importante? Tutte domande alle quali in quel momento non si riusciva a dare una risposta, c’era solo da fare presto. Venni trasferito in terapia intensiva dello stesso reparto di cardiochirurgia, Stefania stazionava giorno e notte all’ingresso del reparto in attesa di quei pochi minuti al giorno che i medici le concedevano per entrare e starmi vicino. Non c’era un medico che lei non abbia fermato per chiedergli com’era la mia situazione, ma si sentiva dare sempre la stessa risposta:<< Le condizioni di suo marito sono gravi ma permangono stazionarie.>> Dopo circa quarantotto ore il nuovo fegato ( nuovo si fa per dire visto che aveva cinquantatrè anni ) cominciò a dare i primi segni di reazione, seppure in modo irregolare, ma iniziò a funzionare. Cominciarono però a sopraggiungere dei problemi, un blocco renale per cui fui sottoposto a dialisi per cinque o sei giorni, poi fu la volta di un versamento pleurico che costrinse i medici a sottopormi ad una toracentesi, cioè ad una puntura nella parete toracica per estrarre del liquido pleurico, e non mancò all’appello neanche una insufficienza respiratoria e qualcos’altro dal momento che mi somministrarono ripetutamente adrenalina.

Le mie condizioni continuavano a non migliorare col passare dei giorni, Stefania era preoccupata sempre più e anche mio figlio Daniele che nel frattempo era tornato da Pisa per starmi vicino. Passarono dieci giorni e venni trasferito al centro di rianimazione CR2 sempre nell’ospedale S. Camillo. Non so se fosse coma naturale o farmacologico sta di fatto che di tutto questo periodo io non ricordi assolutamente nulla quindi cercherò di attenermi scrupolosamente a quello che mi è stato riferito da Stefy e amici. Anche qui le mie condizioni non migliorarono, rimasero sempre gravi, anzi ritornai in sala operatoria per una sopraggiunta emorragia e per essere sottoposto a tracheotomia, un intervento che consiste nell’incisione chirurgica della trachea per aprire una via respiratoria alternativa a quella naturale e che viene praticata di routine in pazienti in stato di coma. Il tempo scorreva inesorabile e il morale delle persone che mi stavano vicine cominciava a dare segni di cedimento…..
……Stefania continuava imperterrita a chiedere notizie sul mio stato di salute a tutte le persone che incontrava con il camice bianco, se le fosse passato davanti il barbiere dell’ospedale avrebbe chiesto notizie anche a lui. Una notte entrai in una severissima crisi respiratoria, faticavo a respirare nonostante l’ossigeno, i medici che si erano radunati attorno al mio letto pensavano fosse arrivato il mio momento ma si adoperavano con tutte le loro forze per farmi uscire da questa pericolosa situazione. Fortunatamente col passare dei minuti cominciai a stare meglio, il respiro si normalizzò seppure aiutato dall’ossigeno, la situazione si regolarizzò con grande sollievo dei medici e paramedici. Il mattino seguente Stefania chiese cosa fosse successo e un medico le disse:<< Signora, non ci chieda che cosa abbia avuto suo marito e perché, non ci abbiamo capito niente, l’importante è che ne sia uscito fuori nel migliore dei modi. Stefania era sempre più preoccupata e stanca della solita frase “grave ma stazionario” e arrivò a bloccare uno dei medici del reparto mettendolo con le spalle al muro e dicendogli:<< Ora mi dice la verità sulle reali condizioni di mio marito o lei non si muove di qui.>> Il malcapitato medico preso alla sprovvista dalla furiosa reazione di mia moglie rispose:<< Signora, per suo marito purtroppo non c’è più niente da fare, le consiglio di chiedere ai chirurghi di effettuare un secondo trapianto, e al più presto.>> Povera Stefy! Se prima stava male ora stava peggio, non so che cosa le passasse per la mente in quel momento, non gliel’ho mai chiesto. Il giorno seguente, precisamente il diciotto dicembre venni trasferito in un terzo reparto di rianimazione, questa volta dell’ospedale Spallanzani, sempre a Roma……
……. e fu la mia fortuna. In questo reparto ci sono stato la bellezza di due mesi e mezzo durante i quali fui sottoposto ad un’altra serie di analisi ematiche ma soprattutto strumentali, in fin dei conti ero in condizioni molto gravi, i medici tutti i giorni non sapevano se il giorno successivo sarei stato ancora vivo, c’è voluta tutta la tenacia e soprattutto la professionalità del Primario e della sua equipe per farmi uscire da quella brutta situazione.

Mi sottoposero ad una prima biopsia epatica all’inizio e successivamente ne subii un’altra a distanza di due o tre settimane per monitorare questo benedetto fegato (romanista?) che dal momento del trapianto aveva preoccupato non poco i medici e non solo loro. Anche qui non potevano mancare le complicazioni, venni sottoposto a due toracentesi a distanza di pochi giorni a causa di un versamento pleurico massivo e mi drenarono così 1200 cc di liquido nella prima e circa 700 cc. durante la seconda toracentesi. Mi ricordo vagamente uno di questi due interventi e non fu molto simpatico, tanta gente intorno a me che mi tenevano seduto sul letto e improvvisamente un forte dolore ad un fianco. Nulla mi ricordo invece quando mi sottoposero a plasmaferesi, un procedimento necessario per purificare l’organismo dalle sostanze tossiche legate alle proteine. Vogliamo poi parlare delle trasfusioni di sangue che ho dovuto fare? Dalle analisi che mi venivano effettuate sistematicamente ogni giorno si evidenziava una severa anemia, e più trasfusioni facevo più questa anemia persisteva, i medici non capivano da dove perdessi sangue in quanto non era in atto nessuna emorragia…..
…..Da quel fatidico quindici novembre, giorno dell’intervento, non mi sono fatto proprio mancare nulla, tutte le complicazioni possibili che potevo avere le ho immancabilmente avute, e anche di più, come ciliegina sulla torta sicuramente a causa delle difese immunitarie basse contrassi anche l’Herpes Zoster, comunemente chiamato “fuoco di Sant’Antonio” una patologia a carico della pelle e delle terminazioni nervose che mi provocò dei dolori terribili al nervo sciatico della gamba destra che onestamente non auguro di provare neanche al mio peggior nemico. Durante la permanenza allo Spallanzani cominciai a tornare alla realtà e il mio cervello cominciò a ricordare qualcosa, anche se molto ma molto vagamente......
(immagini prese dal web)
Romolo Benedetti
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